Sono passati 150 anni da quel triste 9 aprile del 1865, in cui il generale Robert Edward Lee, grande uomo e impareggiabile condottiero, firmò ad Appomattox, in Virginia, la capitolazione della gloriosa Confederazione degli Stati Americani.
Fu l’atto finale di un’impari e sanguinosissima lotta, durata quattro anni, con cui un piccolo popolo, all’incirca di quasi cinque milioni di persone, quindi approssimativamente la metà rispetto alle Due Sicilie, difese eroicamente un territorio tredici volte maggiore contro la spietata aggressione del Nord industriale e capitalistico, che disponeva di una popolazione di circa ventidue milioni, continuamente alimentata dall’immigrazione europea, e di mezzi materiali infinitamente maggiori.
Fu uno scontro di civiltà che presenta molte analogie con quanto avvenuto, quasi contemporaneamente, con l’invasione piemontese delle Due Sicilie, voluta dalle grandi potenze mercantili dell’epoca.
Le armate del Nord, in entrambi gli scenari, aprivano la strada alla rivoluzione industriale, all’avvento di una concezione materialistica dell’esistenza, della religione del profitto, dello sfruttamento senza scrupoli delle risorse naturali e delle vite umane, dell’abbattimento dei principi tradizionali.
Le forze del Sud, in tutti e due i continenti, difendevano un mondo di matrice principalmente rurale, intriso di cultura classica, fondato sul culto dell’ospitalità e dell’onore, sulla concezione cavalleresca della vita e dell’amore, sul disprezzo dell’avidità e della grettezza.
Anche in Nordamerica i vincitori hanno strumentalmente elaborato una vulgata falsa e calunniosa, in quel caso proponendo come ragione della guerra l’abolizione della schiavitù, che invece fu sbandierata da Lincoln – nonostante i suoi sentimenti razzisti – solo molto tempo dopo l’inizio del conflitto, come arma di guerra, al solo scopo di mettere in ginocchio la società meridionale. Gli uomini del Sud non erano responsabili di quell’odiosa istituzione, importata dai negrieri del Settentrione puritano. Con i lauti proventi della tratta il Nord, che la gestiva, alimentò la propria espansione finanziaria e industriale. Nel Sud era diffusa la convinzione che la piaga della schiavitù – peraltro presente anche in cinque stati nordisti – andasse eliminata, ma si comprendeva che il processo avrebbe dovuto essere graduale, pena la rovina della società e immani spargimenti di sangue.
In verità gli storici seri e in buona fede hanno spiegato chiaramente che la causa del conflitto fu la volontà di dominio del Nord, che voleva il monopolio dello sfruttamento dei territori dell’Ovest e, conseguentemente, una maggioranza schiacciante al Congresso, sì da ridurre gli stati del Sud al rango di colonie agricole.
Il più grande storico della Guerra di Secessione americana, l’italiano Raimondo Luraghi, ha, con grande obiettività e insuperato rigore documentale, smontato tutte le menzogne diffuse dalla storiografia conformista e dalla propaganda giornalistica legata al potere economico statunitense.
Noi esortiamo allo studio – senza pregiudizi – di questo evento epocale, magari partendo proprio dalla fondamentale opera di Luraghi (Storia della Guerra Civile Americana, BUR, 2009). Incontreremo figure indimenticabili di eroi e di assatanati fanatici, assisteremo alla sistematica guerra di distruzione condotta dalle armate capitaliste, quasi tutte lautamente retribuite, contro la gente del Sud, in dispregio di ogni regola di umanità, e alla difesa sbalorditiva, geniale, irriducibile, di un popolo unito, che seppe creare dal nulla, in pochi mesi, un’industria bellica pesante e, fra l’altro, inventare il primo sommergibile, la prima corazzata, la prima mina telecomandata.
Attraverso decine di sanguinose battaglie, il Sud si consumava nelle vittorie, mentre il Nord rimediava rapidamente alle sconfitte grazie alla potenza delle sue industrie e della sua finanza, che lucravano sulla guerra.
Stretto nella morsa del blocco navale, ridotto alla fame, invaso da forze preponderanti che avanzavano distruggendo ogni cosa e tormentando la popolazione, il Sud dovette alla fine arrendersi, letteralmente per mancanza di uomini.
Per la sua libertà combatterono valorosamente anche molti soldati napoletani e siciliani, arruolatisi nell’esercito sudista per sfuggire ai lager dei Savoia, come rivelato dal grande Pier Luigi Rossi, amico de L’Alfiere. Difesero la Confederazione anche gli indiani, ai quali con intelligenza e senso di giustizia era stato affidato un intero territorio destinato a diventare Stato: l’Oklahoma. Addirittura, fu un capo indiano, Stand Watie, l’ultimo generale sudista ad arrendersi, oltre due mesi dopo Appomattox. Alla causa sudista non mancò nemmeno l’appoggio dei neri, che si arruolarono numerosi per difendere una terra che era anche loro. Al punto che ancora oggi molti uomini e donne di colore rivendicano con orgoglio il passato sudista dei loro antenati, sventolando una bandiera che non ha nulla a che vedere con l’idiozia bestiale del razzismo, all’epoca molto più diffusa negli stati del Nord.
Come afferma Raimondo Luraghi, «questo stendardo divenne il più popolare e il più glorioso del Sud, le armate della Confederazione lo dispiegarono al lampeggiare dei cannoni su decine di campi di battaglia, coprendolo di gloria immortale.»
La bandiera con la croce stellata di Sant’Andrea bordata di bianco sul rosso dello sfondo è percepita come simbolo del diritto di vivere secondo le proprie tradizioni senza soggiacere alla tirannia del denaro; della ribellione alla prepotenza dei poteri forti; dell’orgogliosa rivendicazione della propria identità e della propria libertà. Per questo è un’icona popolarissima, soprattutto fra i giovani, che contende il campo alle bandiere delle potenze capitalistiche, U.S.A. e Gran Bretagna, propinate in tutte le salse su ogni tipo di merce, a cominciare dai capi d’abbigliamento.
Ma l’occhio invadente della centrale del Pensiero Unico ha finito per accorgersi di questo successo, sicché recentemente si è scatenata una campagna di mistificazione diretta a gettare fango sul glorioso vessillo, sfruttando come pretesto il fatto che uno squilibrato assassino, autore di una strage in un edificio religioso di Charleston, nella Carolina del Sud (la città ove ebbe ufficialmente origine la Secessione), si sia fatto ritrarre con la bandiera confederata fra le mani, evidentemente senza comprenderne il significato. Oltretutto, questo efferato delitto discende dalla sottocultura di sopraffazione e violenza generata dalla civiltà materialista, solitamente prona agli interessi dei mercanti di armi, non certo dalla civiltà degli antichi Stati del Sud.
Mentre, dunque, si sorvola sui crimini immensamente più grandi perpetrati in ogni parte del mondo all’ombra di altre bandiere da parte di Stati tuttora esistenti, si tenta di mettere all’indice la bandiera sudista che, finché fu in vita la Confederazione che la adottò, rappresentò unicamente un legittimo sogno d’indipendenza e di salvezza della patria.
Noi, decisi a rappresentare e commentare gli eventi senza mai piegarci al conformismo imposto da chi (per adesso) prevale nello scontro di civiltà da cui dipendono i destini del mondo, riteniamo che ora più che mai vada innalzato con particolare fierezza e ammirazione lo stendardo per il quale versarono il loro sangue tanti eroici figli di un grande popolo, lasciando un incancellabile esempio di coraggio e dignità.
Il leggendario, grande attacco delle fanterie confederate guidate dal generale Pickett contro le linee dell’Unione il terzo giorno della cruciale battaglia di Gettysburg (3 luglio 1863). Artista Don Troiani.